mercoledì 27 gennaio 2010

Ottavio Valerio

(Vedi Collegio di Toppo Wassermann)

Ottavio Valerio nato ad Osoppo il 4 dicembre 1902 morto il 15 luglio del 1990 è stato una delle più grandi personalità del Friuli del ’900.


Vita

Ottavio Valerio è stato dal 1932 censore nell' Istituto Friulano pro Orfani di Guerra di Rubignacco.
Nel 1948 si trasferì a Udine dopo aver vinto il concorso per Rettore dell' Istituto Comunale Provinciale di Toppo Wassermann.
Nel ferragosto del 1951 fu tra i coofondatori dell'Ente Friuli nel Mondo e ne fu presidente per un ventennio dal '62. Nella Filologica fu uno dei più solerti divulgatori della Panàrie. Da rettore del Collegio di Toppo Wassermann era chiamato dai suoi allievi "il mago", memorabili i suoi vibranti discorsi che avevano luogo in refettorio o nell’ampio atrio vetrato accanto alla portineria del collegio. Tutti, attenti e in religioso silenzio, sotto lo sguardo vigile del censore, di Mestroni e degli istitutori. Fece parte della Consulta friulana di studi regionalistici e del Circolo della stampa di Udine.

Riconoscimenti

Cavaliere, Cavaliere Ufficiale, Commendatore e Grand'Ufficiale della Repubblica Italiana, Medaglia d'argento del Ministero della Pubblica Istuzione per meriti scolastici, letterari, artistici, socio ad honorem dei Lyon's e benemerito con targa e menzione onorifica del Paul Harris Fellow del Rotary.

A Còrdoba (Argentina) gli è stata intitolata l'area verde di via Chisimaio (San Domenico).
Ad Osoppo una via.
Nell' agosto 2007 l'assessore all' Anagrafe del Comune di Udine Franco Della Rossa ha dichiarato che proporrà di legare la denominazione della strada che fiancheggia il polo universitario dei Rizzi collegando ai due estremi via delle Scienze, al fondatore della Società filologica friulana e presidente di Friuli nel mondo.
È stato quasi un simbolo del Friuli: ebbe la cittadinanza onoraria dei Comuni di Flaibano, Forni di Sopra, Rigolato, Rive d'Arcano e Sequals. Fu anche decano del Ducato dei vini friulani. Nel 1956 gli fu attribuito il Premio Epifania, nell'88 il Nadâl furlan.

Ottorino Burelli ricorda la sua azione educativa

Ottorino Burelli ricorda l'azione educativa di Ottavio Valerio nel numero 12 del "Punto" del 15 luglio 1990:
"...Ha educato migliaia di giovani friulani, oggi nuova classe dirigente in tutti i settori e in tutte le professioni. In quel collegio laico, fiore all'occhiello della città di Udine, Valerio ha continuato, trasformandola in caratteristica fondamentale e irrinunciabile, una rettitudine di costume e di determinante processo educativo che forse nessun altro istituto regionale per giovane può vantare. E sempre nel pieno rispetto delle idee di tutti e nella disponibilità più aperta ad ogni tipo di dialogo. Forse è stato questo il suo nascosto segreto di educatore incisivo, mai temuto come autorità, ma sempre capito come responsabile testimone di valori etici di cui la sua vita è sempre stata un esempio quotidiano..."

Una testimonianza controcorrente.

Intervista di M. Chiararia per la rivista del Circolo «G. Bosio» di Roma, I giorni cantati, in corso di stampa.



PERCHÉ/CHE COSA SCRIVI IN FRIULANO ?

D. Tu ha pubblicato diversi libri di poesia e a noi interessava sapere un po' la genesi culturale di queste poesie, considerato anche il fatto che sono poesie dialettali e poesie che trattano diciamo argomenti di storia di cronaca, sulla guerra, sull' emigra­zione, cioè vorremmo che tu ci spiegassi un po' come sei perve­nuto a questo linguaggio, come lo usi, perché lo usi, quali sono le tue finalità ...

R. Ecco, dici la genesi, credo che, anche se non ho riflettuto ancora abbastanza, gli elementi scatenanti siano stati due, forse molti di più, in ogni caso due di sicuro.

Ti dico il primo, come me lo ricordo: nei primi anni '50 ero convittore in un collegio laico di Udine; sono nato in montagna, in un piccolo paese, la scuola superiore più vicina era a 85 chilometri, per percorrerli in corriera ci volevano un'ora e mezza due ore, se c'erano delle grosse nevicate anche di più, andare avanti e indietro avrebbe significato partire con il buio e tornare con il buio. Ero quindi convittore in questo collegio e la retta intera la pagava mio padre, che allora era emigrato in Marocco, anche per questo. Del collegio era direttore un personaggio per molti aspetti interessante che era anche presidente dell'Ente Friu­li nel Mondo, una delle federazioni degli emigrati friulani; i fogolars furlans. Nella sostanza una organizzazione democristiana che manteneva e mantiene, nel bene e nel male, ma oggi non più in situazione di monopolio, alcuni legami tra la diaspora friulana (tra il sentimentale, il folclorico e il clientelare) e la «piccola patria» come loro chiamano il Friuli.

Questo personaggio, andava spesso in giro (dall'Australia a Torino, dall'Argentina a Latina) a parlare e" recitare poesie e filastrocche, in friulano, agli emigrati. Ma poi, in collegio, anche durante la ricreazione, ci vietava di parlare in friulano, cosa che invece facevamo abitualmente e spontaneamente, perché era/è, a tutti gli effetti, la nostra lingua materna.

A noi che seguivamo le sue gesta sul «suo» settimanale Friuli nel Mondo, questa rigidità convinceva poco, anche perché poi spesso faceva venire in collegio il balletto e i cori friulani, organizzava letture di poesie in friulano, che recitava lui stesso, anzi lui era un finissimo dicitore: ci metteva passione, foga, faceva ridere piangere, a modo suo era bravissimo.

La cosa ci sembrava talmente paradossale ed inaccettabile che avevamo inventato tutta una serie dimesse in scena per pigliarlo in giro. Ad esempio quando passava ci mettevamo a cantare delle canzoni friulane tradotte in un italiano maccheronico, se si può dire così, ma sarebbe inesatto perché spesso ci limitavamo a darne un suono o ad aggiungere delle finali italiane, neppure sempre ad italianizzare le parole, ciò ne stravolgeva completamen­te il senso o le privava di senso completamente.

La cosa lo faceva incazzare moltissimo anche perché non prendevamo le canzoni «normali », della tradizione, ma quelle « simbolo» quelle che per lui, che aveva tutta una radice e vernice patriottarda, erano «sacre ».

L'effetto dissacratorio era indubbio, lo capivamo anche noi.

Ma l'episodio più interessante avvenne, nel '64, all'uscita della prima edizione di Libers ... di scugnt la. I compagni di Prato Carnico e di Ovaro, che ne erano gli editori, organizzarono una serata in un Cinema. La gente venne, moltissima. Era stato invitato a leggere le poesie anche il direttore del collegio di Udine ...

Il programma si svolgeva così: un coro locale cantava una canzone che più o meno si adattava o introduceva quello che si sarebbe letto, lui poi leggeva una poesia, un'altra la leggevo io, di nuovo il coro, seguivano letture: lui-io, lui-io, ecc. Più andava avanti più grande era la tensione e incredibile il silenzio. E qui il nostro direttore cominciò a sentirsi a disagio. Le poesie che pur gli erano piaciute, alcune delle quali aveva fatte pubblicare sul settimanale del suo Ente e che anche per conto suo andava leggendo in feste di emigrati e raduni di (ex)collegiali sfuggivano lì al suo controllo.

Credo che, per la prima volta, pensasse che andavano oltre anzi che tradissero, la friulanità e la legittima e assolutamente condivisibile nostalgia per la grande e soprattutto per la piccola patria. Che andassero oltre anche l'altrettanto legittima e opportuna e cristiana necessità di insistere sul fatto che anche l'emigra­to è un uomo e anche sua moglie è una donna e che stando separati non ci guadagnano né in salute né in santità ... ma che tutto ciò, che sarebbe « poesia », se è certamente triste, succede da sempre ed è quindi inevitabile ...

Ma lì la reazione, che certamente era anche di friulani al friulano, di emigrati o ex emigrati o famigliari di emigrati alla loro storia di separazioni, sradicamento, sfruttamento, aveva an­che un segno più preciso e politico, quello che veniva letto era sentito e vissuto come storie loro, diverse da lui; su un piano certamente corale ma di classe: «Alle Arbeiter sind fremdarbei­ter »: tutti i lavoratori sono lavoratori stranieri ...

D. come andò avanti, sia con il direttore che con le tue poesie?

R. Non sapendo come uscirne, provò intanto a distanziarsi, « Questa - dice - leggila tu » anche se toccava a lui. Ma non servì a niente, anzi.

Così ad un certo punto escogitò (anche lui ... ) un trucco per rompere questa tensione, per riuscire a distanziarsi, a cavarsela in qualche modo. Mentre il coro cantava Stelutis alpinis, che è una di quelle canzoni « sacre» lui si alzò di scatto gridandomi: «gli operai hanno insegnato ad ascoltare questa çanzone in piedi ». Ci fu chi rise, gli operai, ci fu qualcuno che si alzò in piedi, si alzò in piedi anche mia madre, sia pur poco convinta, anzi stupita, credo, ma così, per dovuto rispetto al «Signor Direttore». Mio padre rapidissimo le mise le mani sulle spalle e con forza, la fece risedere. Qua e là nella sala successero, fulminee scene analoghe. Rimase praticamente in piedi da solo. Arrabbiatissimo uscì sbattendo la porta. Allora ci fu chi tento di mediare e propose una soluzione stranissima dicendo: adesso che abbiamo sentito la canzone seduti sentiamola un’ altra volta in piedi…>>.

Questo permise da un lato di abbassare la tensione, perché tutti si misero a ridere, e a lui di rientrare con un minino di dignità, ma anche rischiando parecchio, perché ci fu chi propose di buttarlo dalla finestra e ci fu chi gridò: va be’ ma allora sentiamo anche tutte le poesie di Leo in piedi>>.

LeonardoZanier, Sboradura e sanc,Nuova Guaraldi , Firenze 1981, pag. 105-106 e 108-109.'



Esiste un' Archivio di Ottavio Valerio presso la BIBLIOTECA COMUNALE DI OSOPPO

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Bibliografia.
Leonardo Zanier, Sboradura e sanc,Nuova Guaraldi , Firenze 1981, pag. 105-106 e 108-109.
Mino Biasoni, Ottavio Valerio Voce e anima del Friuli, Comune di Osoppo 2000.


Un ricordo dell'Istituto di Rubignacco
Quando mio padre morì io facevo la terza elementare e ricordo che dopo scuola andavo in una fabbrichetta vicino casa, la Fedele, dove mettevo i listelli di legno al sole perchè asciugassero. Nei pomeriggi facevo questi lavoretti: pulivo, davo fastidio agli operai, mi facevo buttare fuori… Ma io insistevo perché alla sera il padrone mi dava un bel piatto di minestra, che per me era tutto. Così, in qualche modo, ci siamo arrangiati. Mia madre era ossessionata dal non riuscire a fare abbastanza per i propri figli. Nella zona c’era il senatore Della Pietra, una persona modesta, sensibile e attenta, e se qualcuno aveva bisogno di qualcosa poteva rivolgersi a lui senza timori; mia madre riuscì ad avere un colloquio con lui: gli espose la situazione della sua famiglia e lui si interessò al caso. Dopo altri incontri, questa volta anche con me presente, il 27 ottobre del 1937 entrai in un collegio. Si trattava di un collegio vero e proprio, che nel 1938-39 fu considerato il collegio più bello e più grande di tutta Italia: il «Collegio Orfani delle Camice Nere» a Rubignacco di Cividale del Friuli. Malgrado io non rientrassi in questa categoria, era un collegio destinato ai figli di coloro che avevano combattuto e che erano caduti in Africa e Spagna. Non si faceva tanta «scuola», ma tantissima istruzione militare, tante marce, saluti al duce, e ginnastica in cui eccellevo cavandomela. Eravamo circa settecento e gli insegnanti erano brava gente. C’erano una disciplina ed una pulizia ferree e devo dire che questo mi è servito molto in futuro. Ci sono stato dall’ottobre del 1937 al 2 luglio 1942.
Tratto da: "Mi presero che avevo i pantaloncini corti" L'esperienza di deportazione di Arrigo Costantini a cura di Matteo Ermacora.

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